L'articolo Sesso e fantasia sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>«E la caviglia?»
«Non mi fa più male».
«Però comincia gradualmente».
«Certo, non ti preoccupare. Non vedo l’ora».
Enrico fa cenno di sì e non commenta ulteriormente. In cuor suo è ben felice di quella decisione, e quanto gli sono mancate quelle domeniche mattina! Il fatto è che adora fare sesso con sua moglie quando torna dalla corsa. Il viso arrossato, i capelli in disordine, il corpo accaldato: fantastica siano l’effetto dell’eccitazione, non dell’attività fisica, e accendono il suo desiderio come nient’altro. Perché, purtroppo, ormai si è arreso: sua moglie non è proprio interessata al sesso. Per anni ha tentato di risvegliare in lei una seppur minima reazione. Ha cercato di escogitare le più ingegnose posizioni e scandagliato quel corpo centimetro per centimetro con ogni estremità prensile o tattile del suo corpo. Niente, alla fine ha rinunciato; al massimo riesce a evocare quei gridolini che arrivano precisi come un orologio proprio quando lui sta per finire, la cui puntualità tradisce la natura fittizia e ormai intristiscono ogni suo orgasmo. Da tempo ormai compensa la mancanza di partecipazione di sua moglie con la fantasia, di quella per fortuna è ben provvisto, immaginando che al posto della sua compagna algida ci sia di volta in volta una delle varie donne a cui, nel corso della sua vita, ha saputo risvegliare un interesse. Storie vecchie, come le sue compagne di scuola o di università, o incontri più recenti, come la cassiera del supermercato: non crede di sbagliare, ultimamente gli fa il filo. Si sente in colpa per questo? Per niente, anzi sua moglie dovrebbe essergliene grata, visto che la tradisce solo con il pensiero! Comunque è un’attività deprimente, gli sembra di essere arrivato ad aver bisogno di un porno per consumare un rapporto soddisfacente. C’è rimasta la corsa: quando sua moglie torna un po’ sudata, con i capelli arruffati, con quella spossatezza che può immaginare dovuta alla lascivia, non ha bisogno di pensare ad altre donne e anche i suoi gridolini, in quel contesto, riesce a crederli spontanei.
Eleonora apre gli occhi. Enrico ancora dorme, constata soddisfatta. Sbadiglia e si stiracchia. Se riesce a prepararsi in silenzio, magari ce la fa a tornare prima del suo risveglio e a far subito la doccia. Perché Enrico smania di fare l’amore con lei al ritorno dalla corsa, quando è ancora tutta sudata e sicuramente anche maleodorante, una pratica che le sembra un po’ malata. Chissà che gli prende la domenica mattina, proprio non riesce a capirlo. Ogni volta lei tenta di temporeggiare, gli chiede di aspettare che si lavi, che fretta c’è, hanno tutta la mattina a disposizione, ma niente, non c’è verso. Sta diventando una fissazione. E fosse solo quello. Perché, purtroppo, ormai si è rassegnata: suo marito non è proprio portato per il sesso. Ha questa idea di erotismo atletico, come se tutto dipendesse dal grado di complicazione posturale che riesce a imprimere ai loro amplessi. Alla fine Eleonora ha l’impressione di essere impegnata in una prova ginnica. Il tutto in un rigoroso silenzio. Mai una parola o un’espressione che testimoni la sua partecipazione. È come fare sesso con un manichino, una macchina priva di anima impegnata in un’attività il cui scopo a volte le sfugge. Ma lei fa l’amore anche con il cervello, forse soprattutto con quello, e ha bisogno che l’altro le parli e le racconti il suo piacere e come lei riesce a evocarlo. Ha anche tentato di spiegarlo a Enrico e lui, con buona volontà, ha provato a dire qualcosa ma le sue parole le sono suonate fasulle, prive di risonanza interiore. Evidentemente è un’attitudine che deve nascere spontanea, altrimenti non funziona. Allora, è meglio immaginarsela, quella partecipazione, e per fortuna la fantasia non le manca. Ha avuto un amante che come nessun altro è riuscito a farla sentire desiderata e capace di dare e ricevere piacere. È triste ammetterlo, ma quando si rende conto che l’esibizione atletica di Enrico sta per concludersi, chiude gli occhi e rievoca nella mente le parole infuocate del suo antico amore, che hanno saputo accendere il suo desiderio e che a tanti anni di distanza ancora sono capaci di farlo.
Enrico si sveglia. A giudicare dalla luce che filtra dalle tapparelle deve essere piuttosto tardi. Eleonora è sdraiata al suo fianco, di spalle. Aveva detto che sarebbe andata a correre, evidentemente non se l’è sentita, pensa deluso. Allunga comunque una mano verso sua moglie. I riccioli sulla nuca sono un po’ inumiditi. Una luce di speranza si accende nei suoi occhi.
«Buongiorno. Allora sei già andata a correre?»
Sposta la mano sulla schiena e la sente bollente. Comincia ad accarezzarla.
«Macché. Avrei voluto, ma non sono riuscita ad alzarmi. Non mi sento bene. Mi brucia la gola, devo avere la febbre. Speriamo che non sia il Covid, ho sentito che i casi stanno risalendo».
Enrico si blocca e ritira la mano. Guarda le sue dita, lievemente inumidite.
«Vado a prepararti il caffè».
E schizza fuori dal letto.
Immagine di copertina da pexels cottonbro studio
L'articolo Sesso e fantasia sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo La giacca a strisce gialle sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>Copertina di Kenneth Vellinga da unsplash (ridimensionata)
L'articolo La giacca a strisce gialle sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo Il contratto sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>Ogni tanto fa un risucchio per gustare appieno il lecca-lecca arancione. Se ne sta seduto sul gradino mezzo in ombra e scaccia inutilmente le mosche con la manina appiccicosa. Lo guardo di sfuggita mentre sistemo i fiori nuovi: ha i sandali di una misura troppo piccola e le dita dei piedi si affacciano al margine della suola.
La madre, come me intenta a prendersi cura di chissà chi, toglie la polvere dal piccolo davanzale con un fazzoletto di carta che ha inumidito alla fontanella, poi sistema un mazzetto multicolore nel vaso. Appena ha finito si allontana dalla parete ormai in ombra a guardare in silenzio quei riquadri freddi, più o meno accuditi. Mentre mi avvicino a pochi passi da lei, con il mio vaso colmo di acqua fresca e rose appena sbocciate, la vedo aggrottare la fronte, seguendo con gli occhi tutte le file dall’alto in basso, un po’ smarrita. Dice qualcosa in una lingua veloce al bambino, che annuisce serio, e poi si allontana, incerta sulla direzione da prendere.
Lui si avvicina a toccare con il dito i bordi della foto e i petali dei fiori, sempre tenendo il lecca-lecca con l’altra mano. Mi guarda di lato, mentre tolgo la polvere dal piccolo davanzale con un fazzoletto di carta che ho inumidito alla fontanella. Ho anche il prodotto per il marmo chiaro e, mentre mi accingo alla lucidatura, il bambino si gira verso me.
– È il tuo papà?
– Sì, proprio lui, – rivolgendogli un sorriso da adulta, non richiesto.
– Però anche tu sei vecchia.
L’osservazione rimane a galleggiare tra noi, senza che io riesca a trovare una risposta adeguata. Lui sta lì, riccioli fitti, occhi grandi e una mosca sulla mano.
– Anche lui è il tuo papà? – riesco a ribattere
Annuisce.
– Così dice la mamma, ma io non l’ho visto. È arrivato qui da poco tempo.
Annuisco anche io, occupandomi della cornice d’ottone attorno alla foto. Lui succhia il lecca-lecca come se volesse finirlo in una volta sola.
– C’è davvero lui lì? Non so se la mamma è sicura, ma lei dice di sì. Però non piange mai.
Alza la testa verso di me.
– Beh, penso di sì, che sia proprio lui, se la mamma ti ha detto così, lei lo sa senz’altro, non credi?
– È che c’era tanto buio sempre e freddo, e io vedevo solo gli occhi e non le facce. Sembravano tutti uguali seduti sul bordo, anche se lui quella volta non c’era. Tu hai pianto?
– Eh sì, quando è morto il mio papà ho pianto, anche se era molto vecchio. Siete arrivati dal mare?
– Mmm, sì.
Si guarda i piedi.
– E il tuo papà non era con voi?
– No, anzi prima sì, poi, quando io e la mamma eravamo già seduti sul fondo, gli uomini cattivi hanno iniziato a picchiare il mio papà perché volevano altri soldi e la barca è partita e lui è dovuto restare lì per molto tempo. Adesso stava proprio per arrivare, secondo la mamma.
– Oh, mi dispiace tanto, ti mancherà.
Sposto il peso da un piede all’altro e inizio a sudare.
– Un po’ me lo ricordo, se guardo la foto.
Passo a occuparmi del lumino. Tolgo la protezione di vetro intagliato a forma di fiammella che per poco mi scivola tra le mani, e inizio a lustrarla cercando di concentrarmi sulla polvere tra le sfaccettature. La piccola luce si riflette e si amplifica sulla parete in ombra, senza più costrizioni.
– Secondo te hanno freddo? – chiede con le guance rientrate e la bocca che aspira l’aria.
Lo guardo negli occhi per un istante.
– No, ormai non hanno mai freddo, me lo ha detto la mia mamma tanto tempo fa, e le mamme queste cose le sanno sempre.
– È vero, anche la mia sa sempre tutto, proprio come la tua.
Sorride soddisfatto e mi sfiora una gamba con la mano, come a scacciare una mosca.
Ci voltiamo entrambi al rumore dei passi della madre di ritorno con uno dei rari guardiani decrepiti che si aggirano per quei vialetti sassosi, mostrandogli la parete con il viso contratto.
– Vedi, solo il mio è spento. Perché non c’è la luce come per tutti gli altri? Così la notte rimane al buio!
– Eh signò, che le devo dire? L’ha fatto il contratto?
– Come contratto? Perché?
– Perché funziona che la luce è predisposta, mi capisce? La luce arriva, ma solo se lei paga l’utenza, me sò spiegato?
– L’utenza… ma come utenza di che?
– Come la luce de casa, la deve pagare lei, se la vuole.
– Ah, se la voglio… ho capito, non sapevo, scusami.
– Non c’è di che, tesò. Passa all’ufficio che ti spiegano tutto gli impiegati.
La donna prende il bambino tirandolo per la manina e si avvia veloce verso l’uscita, lui si volta ancora una volta a guardare me e i fiori colorati, poi butta il bastoncino del lecca-lecca nel cassonetto prima di sparire al di là del muro.
Foto di copertina di Marina Cerquetti.
*****
Monica Pace è nata a Firenze e vive a Roma dove fa la ricercatrice. Alcuni suoi racconti sono apparsi su Vie di fuga e EquiVoci, ebook a cura di «Cattedrale» e della Scuola del Libro, e su Retabloid, Spazinclusi, Hook magazine, Nazione Indiana, inutile e Narrandom. Partecipa come autrice aggiunta al collettivo Spazinclusi.
L'articolo Il contratto sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo L’uomo senza nome sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>Negli ultimi sessant’anni di vita l’uomo si è svegliato alle 6:00, ha messo la caffettiera sul fuoco e portato il caffè a letto alla moglie. La donna a quel punto gli rivolgeva sempre la stessa domanda, con lo sguardo tenero ma affacciato sulla soglia della rabbia: “Ma dove dobbiamo andare così presto?”
Lui, dopo, si radeva sempre e lei iniziava con calma a rassettare la loro casa quasi sempre già in ordine.
Poi, quella mattina ingrata, sua moglie non aveva aperto gli occhi alle 7:00, né alle 8:00, né mai più.
L’uomo ricorda di aver pensato: “E adesso che faccio?”. E dopo aver appoggiato le labbra secche sulle sue era uscito dalla stanza,
Quella era stata l’ultima volta che vide sua moglie.
Si era seduto al tavolo della cucina e aveva telefonato al fratello che quaranta minuti dopo era già lì, pronto ad occuparsi di tutte le formalità.
L’uomo osserva le papere che si ingozzano di molliche, sollevano il collo come per guardare il cielo e deglutiscono avide.
Si chiede quanto bene gli faccia mangiare tutto quel pane. Domani, si dice, lo chiederà alla donna.
Ma il giorno dopo, davanti ai pezzi di pane che le volano via dalle mani della donna, l’uomo tace, mentre l’airone osserva la scena dall’alto.
Gli torna alla mente quel pomeriggio di quasi quarant’anni prima, ricorda l’odore di sterpaglie bruciate nell’aria: un incendio nei campi davanti casa rendeva complicato anche solo respirare. Rientrando dal lavoro aveva trovato la moglie con la cornetta a mezz’aria, aveva appena scoperto che la figlia non sarebbe più tornata a casa.
Glielo aveva comunicato la ragazza, chiamando da una cabina del telefono e aggiungendo, col tono pacato di sempre, che sarebbe stato meglio per tutti.
L’uomo aveva tolto la cornetta muta dalle mani della moglie e aveva riagganciato.
Poi l’aveva accompagnata al divano e sedendosi accanto a lei, le aveva detto che aveva ragione la figlia: sarebbe stato meglio così.
Qualche minuto dopo arriva trotterellando il cane bianco e marrone, all’uomo fa sorridere quel suo orecchio ripiegato.
Il cane si ferma a pochi centimetri da lui, gira su se stesso provando a grattarsi il fondoschiena ma si arrende subito e si accontenta di una scrollata.
Prende un bastone e lo lascia cadere ai piedi dell’uomo, che sa cosa deve fare e obbedisce lanciandoglielo più lontano che può.
Sono passati solo venti minuti da quando si è seduto sulla panchina e il tempo gli appare immobile come la cappa avvolta intorno al cielo che non fa passare nemmeno un filo d’aria.
Ha letto su un giornale che quella che sta per arrivare sarà un’estate caldissima e, spera lui, anche l’ultima.
Durante i mesi prima della morte della moglie, la sua salute era peggiorata. Lei era solita tenere un calendario per le medicine e ricordargli le visite mediche.
Era più giovane di lui di quasi dieci anni, la sua morte una possibilità ridicola.
L’uomo che ogni mattina mattina fa il giro del lago di corsa gli passa davanti, ha la sua stessa età ma le cosce toniche e le vene in evidenza lo fanno sembrare più giovane e in forma.
Del resto l’uomo non è mai stato uno sportivo e, anzi, pensa di non aver mai corso, nemmeno quando era giovane.
Quando portava al parco sua figlia, si ricorda, le diceva sempre di non allontanarsi troppo, che lui non l’avrebbe seguita: “Guarda che se ti allontani, torni a casa da sola” le ripeteva con voce ferma. Poi la incalzava: “Lo sai che autobus passa di qui? Perché devi prendere quello se rimani sola, eh?”, ignorando il fatto che bambini e sarcasmo non vanno d’accordo.
Alcune volte invece era lui a scomparire, si nascondeva dietro agli alberi e la bambina rimaneva immobile e confusa in attesa che il papà tornasse.
Proprio in quel parco, una domenica di tanti anni prima, ricorda che la figlia correva fino al laghetto, sull’erba gialla bruciata dal sole, andava a vedere le nutrie che si facevano la doccia e poi tornava da lui, che l’aspettava all’ombra di un albero intento a leggere il giornale.
Ad un tratto però l’andirivieni s’interruppe e la piccola rimase dietro la siepe: riusciva a vederne le gambette magre con le ginocchia sbucciate che se ne stavano ferme immobili.
Dopo averla chiamata più volte, era tornata.
I calzini di cotone bianchi bucherellati erano scivolati giù e ora somigliavano una bocca triste sulle scarpette nere di vernice.
L’uomo capì con orrore che la bambina aveva in mano una la pagina di un giornale pornografico, gliela aveva strappata di mano e le aveva chiesto: “Dove l’hai presa questa zozzeria?” Lei, col mento tremante, aveva risposto “Me l’ha dato un signore laggiù, dietro la siepe”.
L’uomo si era alzato e aveva visto un tizio allontanarsi con passo calmo e le mani in tasca. Dopo pochi minuti e senza dire nulla, se ne andarono anche loro, era l’ora di pranzo. Non ne parlarono mai più.
“Stamattina il cielo non promette niente di buono”. Mentre l’uomo osserva l’orizzonte arriva una signora mai vista che si siede sulla panchina accanto alla sua, lo guarda e gli sorride. Poi, sentendo la sua frase cadere nel vuoto, apre la borsa e tira fuori il suo lavoro all’uncinetto. A sua moglie, ricorda, non era mai piaciuto fare quei lavori.
Sotto l’albero c’è un bambolotto sporco. L’uomo si alza con fatica e va a prenderlo, non ha il vestito, il corpo è solo stoffa ripiena di ovatta sporca di terra e pennarello. Lo mette in bella vista su un muretto, forse qualche bambina lo sta cercando.
Da piccola anche sua figlia aveva un bambolotto così, un Cicciobello regalo di Natale che ricorda essergli costato parecchi soldi, la bambina lo adorava.
Poi, da un giorno all’altro aveva smesso di giocarci: “È diventata grande”, aveva detto sua moglie.
E così Cicciobello era finito nella spazzatura sotto casa insieme ad altri giochi, cianfrusaglie e vestiti vecchi.
Il giorno dopo, la moglie e la figlia erano uscite di casa per fare la spesa al mercato e, dopo pochi passi, avevano sbarrato gli occhi, incredule.
Cicciobello era sopra un banco della frutta, sorridente e profumato, con una corona in testa e uno straccio bianco addosso: un inquietante Gesù Bambino crocifisso.
La ragazzina si diede un tono e non pianse: sul volto quella buffa aria indignata di chi vuole apparire adulta.
Il cane oggi zoppica e allora l’uomo gli dà una grattata sulla schiena ma non gli lancia il bastone. Sarà meglio che non sforzi la zampa, pensa.
Lui non ha mai avuto un cane, se si esclude quel meticcione che viveva a casa dei genitori quando era piccolo e che un giorno era scomparso. È convinto che i genitori ne sapessero qualcosa ma non ha mai avuto il coraggio di chiedere nulla.
La donna delle papere oggi ha parlato al telefono con la figlia, che era agitata perché avrebbe dovuto presentarsi a un colloquio per un importante lavoro. La madre le aveva detto di andare e mettercela tutta, che poi coi bambini l’avrebbe aiutata lei.
L’ultima volta che lui aveva parlato al telefono con sua figlia, invece, c’era stato uno scambio veloce e il “Ti passo tua madre” a salvare entrambi dal silenzio.
Il danno irreparabile era stato fatto il giorno prima, le parole scagliate e le minacce: “Se domani vai davvero lì, non tornare mai più a casa”, le aveva detto.
Lei aveva provato a spiegargli le sue ragioni fino a che, esasperata dal muro di gomma che era suo padre, gli aveva urlato contro pur sapendo che sarebbe stato inutile.
Infine, aveva lanciato un incantesimo di protezione tutto intorno a sé e ripetuto in maniera assente e quasi catatonica che su quella decisione non sarebbe tornata indietro.
Lo fece con una sicurezza che al momento sembrò quella irresponsabile dei vent’anni ma che, in seguito, si sarebbe rivelato un atto necessario di sopravvivenza.
Un pomeriggio l’uomo si sveglia di soprassalto, gli sembra che ci sia del fumo nella stanza e si domanda se sia già mattina.
La puzza di bruciato si insinua tra le narici prendendo il posto del sogno che arrendevole scivola via e di colpo l’allarme antincendio vibra fino alle ossa.
Si è addormentato sul divano col sugo che intanto bruciava sul fuoco.
Ha sognato sua moglie: “Ma cosa hai fatto? Ti rendi conto? Hai cacciato tua figlia di casa! E ora sei un vecchio e morirai da solo in questa stanza, nessuno si accorgerà che non ci sei più. Perché non l’hai richiamata? Perché?”, urlava lei dal sogno, con una voce rauca che lui in tanti anni non aveva mai sentito.
Negli ultimi anni gli incubi sono diventati terribili: qualche tempo prima ha sognato la figlia, è tornata ad essere quella bambina buona che gli sorrideva in silenzio ma aveva in bocca una pagina di giornale a colori, prova a masticarla e mandarla giù ma il viso diventa livido mentre soffoca e lui la osserva senza riuscire a fare niente.
Aveva preso da poco l’abitudine di non addormentarsi mai con le finestre aperte, neanche in estate. Qualche anno prima, un conoscente gli aveva raccontato una storia: tutto si era svolto in uno di quei palazzoni di periferia, non molto distante dalla loro vecchia casa. Uno di quegli edifici spalmati per lungo dove le porte sono tutte attaccate una all’altra su corridoi interminabili e gli stendini sui ballatoi impregnano l’aria di ammorbidente stucchevole.
Lì, tra le altre persone, viveva una donna sola: la gattara.
La chiamavano così perché aveva creato una piccola colonia sul marciapiedi di fronte al palazzo. I vicini, infastiditi dalla puzza, avevano provato a farla smettere, ma non c’era stato verso. Lei diceva sì sì a tutti, sorrideva in un modo che non capivi mai se era per gentilezza o perché ti stava per sgozzare col coperchio di latta, e continuava con lo stesso rituale quotidiano. Quando scendeva a dare da mangiare ai gatti, portava anche dei pezzi di pane per le cornacchie.
Nessuno sapeva niente della sua vita, se era stata anche lei moglie, madre o figlia di qualcuno, se aveva interpretato mai uno di quei ruoli rassicuranti che l’avrebbero resa più accettabile.
Poi un’estate sparì ma inizialmente non se ne accorse nessuno.
Una vicina giovane, con la voglia di fare tipica di chi si è trasferito da poco, la sostituì nello sfamare le bestiole lasciando per giunta tutto più pulito.
Anche sua figlia, intorno ai dieci anni, si era fissata col voler salvare i gatti che giravano nel quartiere. Avendo il divieto assoluto di portare animali in casa, si era organizzata con un’amica del palazzo per portare da mangiare a un gattino di poche settimane che viveva in un cortile interno dietro il loro palazzo. Era piccolo, cisposo e malnutrito, e lei era molto fiera di quel salvataggio.
Dopo pochi giorni scese a portare la scatoletta e lo trovò schiacciato in mezzo alla strada con le budella rosa corte ad avvolgere, come una cinta, quella che per poco tempo era stata la sua pancia gonfia.
Dopo qualche settimana, i vicini della gattara iniziarono a sentire una strana puzza, forse una carogna di animale. Poi realizzarono che la vacanza della donna stava durando davvero troppo a lungo e iniziarono a insospettirsi. Allarmati avvertirono il padrone di casa ma quello rispose: “L’affitto viene pagato regolarmente, io non posso entrare in casa sua senza permesso. Se vi interessa tanto, chiamate la polizia”.
Dopo una settimana, il fetore era divenuto insopportabile e nel mezzo di un agosto indifferente, la ragazza decise di chiamare la polizia.
Quando quelli buttarono giù la porta trovarono la gattara. Era stesa sul divano, intorno a sé migliaia di oggetti inutili, tanti libri, quaderni pieni di parole incomprensibili, qualche giocattolo e decine di sacchi della spazzatura e scatolette di cibo per gatti. Morta.
Dentro la vasca da bagno c’erano delle bacinelle piene di urina e sul pavimento della cucina delle pentole piene di un liquido dall’odore acido, che nessuno ebbe il coraggio di identificare come vomito.
Il volto della donna era stato beccato dagli uccelli: i lembi di pelle tirati verso l’alto da strappi violenti.
Della gattara misteriosa, che incuriosiva e infastidiva i vicini, si vennero a sapere così due cose: grazie a un addebito sul conto bancario pagava l’affitto puntualmente e aveva il vizio di lasciare sempre le finestre spalancate.
“Ma voi non mi mangiate se muoio, vero? Lo promettete? Sennò non vi do più il pane”, si raccomanda il vecchio alla cornacchia sul balcone.
Il giorno successivo, mentre accarezza il cane, intravede in lontananza una donna e per un attimo solo immagina possa essere sua figlia, ma quella sale veloce su un autobus e sparisce.
Del resto anche sua figlia era salita su un autobus per andare ad abortire ed uscire dalla sua vita.
Lui, che non ne aveva voluto sapere niente di tutta quella storia, non aveva mai chiesto niente su come fosse andata.
La ragazza non ebbe nessun tipo di complicazione, l’intervento non fu doloroso e neanche emotivamente complicato. Non ci furono pianti né rimpianti, solo un po’ di sana paura per l’operazione in sé, che si rivelò invece essere davvero piccola e innocua.
La madre si era offerta di accompagnarla in macchina quel giorno, ma lei aveva rifiutato con decisione. Non voleva assolutamente che i suoi genitori si mettessero a discutere tra di loro su quell’argomento.
Si era portata dietro una borsa parecchio grande per poche ore di ospedale ma molto piccola, considerando che ci aveva infilato dentro tutto quello che aveva deciso di tenere con sé.
Qualche mese dopo, l’uomo entrò nella camera della figlia, già congelata in uno spazio-tempo nel quale lei non era mai esistita e riempì dieci sacchi neri della spazzatura con le sue cose da portare in chiesa. La moglie non lo aiutò.
Decidendo di non voler essere madre, la ragazza aveva scelto di non essere più nemmeno figlia.
Il lago è quasi completamente ghiacciato e i pochi uccelli rimasti condividono il piccolo specchio d’acqua che, chissà perché, non congela mai. Aspettano il momento in cui la lastra di ghiaccio si sciolga e gli restituisca le loro case fatte di canne, sassi e foglie.
L’uomo passeggia con cautela lungo il lago dalla riva scivolosa di brina e incontra la donna dell’uncinetto, sta passeggiando anche lei e non tiene in mano il solito lavoro di fili intrecciati.
Si salutano e, mentre fanno qualche passo nella stessa direzione, lei gli fa delle domande banali alle quali lui risponde evasivo, fino a quando lei non gli chiede: “Senta, stavo pensando, vorrebbe venire a pranzo da me?”
L’uomo la guarda di sbieco come se non afferrasse la domanda.
Lei si affretta a spiegare: “Siamo tutti e due soli, da quello che ho capito è vedovo anche lei. Potremmo mangiare qualcosa insieme e farci compagnia, che male c’è?”
L’uomo si gira verso lo specchio d’acqua argentata e immagina la casa della donna, pensa a un posto zeppo di centrini di ogni fattezza, il copridivano, il copriletto tutto rigorosamente all’uncinetto. Se la immagina, però, anche luminosa e profumata. Gli pare quasi di sentire il profumo di un sughetto fresco di pomodoro, uno di quelli veloci e deliziosi, preparato col soffritto leggero di cipolla e tre foglie di basilico fresco coltivato sul davanzale e poi anche quello del caffè e dello zucchero a velo delle pastarelle che avrebbero preso strada facendo.
Si vede seduto a fare due chiacchiere e a domandarle se anche lei vedeva ancora quella scemenza di Beautiful.
Infine apre la bocca: “No”, le risponde, e senza aggiungere altro torna verso casa.
La donna lo guarda andare via, in fondo non si aspettava niente di diverso.
L’uomo rientra a casa, ha fame e col freddo che ha preso al lago sarebbe meglio prepararsi una zuppa di legumi ma si è dimenticato di comprarli, così mette su l’acqua a bollire per cuocersi un uovo.
Finito di mangiare fa la scarpetta fino a far brillare il piatto, poi mette la caffettiera sul fuoco e si avvicina alla mensola della cucina: l’edera sempre vogliosa di arrampicarsi, due vecchie bomboniere ingrigite, un dito di polvere, qualche libro di cucina e quel quaderno verde su cui la moglie appuntava qualche ricetta e, come ha sempre sospettato, non solo quelle.
Lo sfoglia, le prime pagine sono piene zeppe di ricette scritte con grafia curata. Gli torna in mente l’odore della focaccia, sapeva un po’ di acido e di latte, lei la preparava perché la figlia, che ne era golosa, potesse portarla a scuola per merenda.
Gira uno a uno i fogli irrigiditi dalle macchie di acqua e olio fino ad arrivare all’ultima pagina, sulla quale trova scritto un numero di telefono. Quel nome, mai più nominato né dimenticato, non c’era nemmeno bisogno di scriverlo.
L’uomo chiude il quaderno e lo mette via: per quella telefonata è in ritardo di trent’anni.
Beve il caffè in un sorso e si sdraia sul divano, cercando di allontanare una mosca fastidiosa. Dopo pochi minuti, i sogni si accomodano a sedere accanto a lui: scuri e tormentati come la vita che si è sforzato di non vivere.
Vede sua figlia, è di spalle e appoggiata adì una lapide, con un pugno sul marmo fa cadere una foto che ritrae lui da bambino.
Compare anche sua moglie che mastica i fogli del quaderno verde e gli dice: “Copriti la pancia che stai digerendo”.
Le cornacchie battono col becco duro contro le finestre chiuse, formano una piccola crepa che diventa una ragnatela e infine un buco grande dove può passarci un pugno. La mano dell’uomo sale fino al volto, si accorge di non essersi rasato, se ne dispiace mentre fa buio.
Il giorno dopo, l’unico ad accorgersi della sua assenza è il cane che lo aspetta per qualche minuto guaendo davanti alla panchina col bastone in bocca.
La donna dell’uncinetto non alza gli occhi dal suo lavoro infinito.
La signora delle papere lancia pezzi di pane in compagnia dei suoi nipotini.
Il fischio del padrone richiama il cane che in un attimo si dimentica dell’uomo, delle sue grattate e corre via veloce, in cerca di un nuovo bastone da farsi lanciare.
Non importa da chi: basta che arrivi lontano.
Copertina AI-generated con Canva (Magic Studio™)
*****
Francesca Addei nasce a Roma e ci mette trentasei anni a lasciarla per andare a Berlino, dove vive ormai dal 2013 con un marito, un cane problematico, la vitamina D e diverse piante tutte incredibilmente ancora vive.
Vorrebbe viaggiare più di quanto non faccia già.
Non ama descriversi, né parlare di sé in terza persona, di conseguenza la sua biografia termina qui.
L'articolo L’uomo senza nome sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo Ridono di me sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>Copertina originale di miryel
*****
Simona Rampini nasce e vive a Milano. Ha sempre ascoltato e letto storie, poi ne ha raccontate molte e ora si è messa in testa di poterle anche scrivere. Ama i libri, la sincerità e le bugie a fin di bene, la montagna, i gatti, i cactus e il jazz, non necessariamente in questo ordine. Pratica la scuola di scrittura di Francesco Trento e bazzica l’arena di Minuti Contati.
L'articolo Ridono di me sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo La Bisque sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>Copertina originale di Ilaria Salvatori
*****
Valeria Barbuto nasce a Milano nel 1971. Giovanissima abbandona gli studi di scienze politiche e si trasferisce a Roma per fare l’attrice. Si dedica al teatro e al cabaret per quasi dieci anni e successivamente parte in giro per l’Europa. Studia l’inglese e il francese e lavora nel settore turistico. Rientra in Italia nel 2015 e, dopo una parentesi come cuoca in un ristorante, nel 2019 trova impiego presso il Comune di Milano. Da quattro anni scrive e studia scrittura creativa.
L'articolo La Bisque sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo Bolle di sapone sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>Uso il nuovo telefono ora. È fantastico: belle foto, bello sfondo, indistruttibile… sembra perfetto e forse lo è. Non mi ha ancora detto di no, mi lascia fare quello che voglio. Ha la protezione incorporata, ma io lo tratto come se così non fosse. Voglio pensare di aver imparato qualcosa… voglio pensare che ciò che c’è stato tra me e il mio vecchio cellulare abbia significato qualcosa e che non sia andato tutto in bolle di sapone.
Foto di copertina di Marina Cerquetti.
*****
Federico Bastianelli è studente di Italianistica, a un pungo di pagine dalla fine della tesi magistrale, e impiegato in un’azienda che realizza software. Potete trovare altri suoi racconti su Narrandom, Bomarscé, Malgrado le mosche, Sulla quarta corda, e a breve anche L’equivoco.
L'articolo Bolle di sapone sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo Guarigione sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>All’inizio di tutto ho sentito freddo. Il primo vero sintomo della malattia è stata una sottile onda gelida dentro di me. Pensavo fosse una reazione al fatto che il pozzetto del water non era pieno d’acqua, ma di sangue; invece era proprio un sintomo. Ho sentito freddo mentre mi visitavano, durante le lastre, le TAC e tutti gli altri esami. Ho sentito freddo mentre prendevo i farmaci, mentre venivo anestetizzato e operato. Quando mi sono svegliato in corsia avevo i brividi.
La malattia è arrivata come l’inverno: in silenzio, con il suo grigiore uniforme nel cielo, con la sua tristezza, la sua stanca disperazione, la sua secchezza e la sua umidità che non disseta. E ora, dopo un anno passato per trovare la cura giusta, dopo l’intervento risolutivo e dopo l’ufficializzazione del mio stato di salute, ho ancora freddo.
Questa è la mia gioia, la mia guarigione.
Un’altra telefonata. Stavolta è Vincenzo. Sicuramente vorrà chiedermi novità sulla campagna per le gelaterie.
«Pronto?»
«Ciao Filippo, come stai?»
Alzo le spalle, non so che dire.
«Tutto bene?»
«Sì, ho un po’ freddo, ma sto bene».
«Senti, riesci a mandarmi il report entro mezzogiorno, così gli do un’occhiata nella pausa pranzo?»
Mi volto e vedo il PC chiuso vicino ai cuscini.
«No, non ci riesco».
Lo sento sospirare: «Ascoltami bene! Qui è un casino, ok? Io ti ho fatto mettere in smart working, ma devi lavorare, sennò ti prendi il congedo, ne abbiamo già parlato, perché non puoi tenere fermi tutti perché tu la mattina hai bisogno di scioglierti. Sono stato chiaro?»
Annuisco.
«Allora? Sono stato chiaro?»
«Sì».
Chiudo anche questa telefonata, la seconda da stamattina.
«NU-ME-RO-U-NO!»
Prima di mettermi di nuovo sotto le coperte mi metto un altro paio di calzini, non si sa mai che il freddo voglia portarmi via la gioia. Sistemo i cuscini e mi sembra di spostare dei blocchi di ghiaccio. Metto il PC sulle cosce e alzo lo schermo, appoggio il dito sul tasto di accensione: è ruvido, come una piccola pasticca. Mi è appena tornato alla mente qualcosa.
Poso nuovamente il PC e mi alzo dal letto. Sul ripiano della cucina c’è il cestino delle mie medicine. Cerco la confezione del farmaco. Estraggo il bugiardino, tiro fuori il blister: è vuoto. Devo uscire a comprarne un’altra confezione. Da qualche parte ho già la ricetta della dottoressa Cerri. «NU-ME-RO-U-NO!» continua a gridare Gigi. Forse mi sta incoraggiando? Da quant’è che ha preso la fissa per questa frase? Qualche mese, forse. C’è stato il periodo di gat-ti-no! poi pa-pe-re! e poi il mio preferito ovecchio! Ora invece ha questo nu-me-ro-u-no. Lo grida sempre e se incontra qualcuno per strada glielo grida in faccia. Però oggi sembra proprio rivolto a me, sembra voglia congratularsi per aver sconfitto la malattia, per essere rinato. Forse il numero uno è il giorno della mia nuova vita, la mia vita da guarito. Eppure il freddo non mi abbandona: ormai mi sono ammalato dello stato di malattia, ormai vivo nella condizione del morente. Tutto è fermo per me, inutile o volto all’inutile, visto che non c’è più tempo, non c’è mai stato tempo: siamo in ritardo, tutti. A Gigi lo hanno detto da bambino, io l’ho capito da quando ho sentito il freddo, nonostante le stagioni. Se è vero che il mio ghiaccio si scioglierà, sarà solo perché possa cadere a terra e filtrare nel terreno, per ritornare fango.
Ecco la ricetta del farmaco. Mi metto il giaccone pesante, ma non riesco a tirare su la cerniera perché ho le dita intirizzite: tremo dalla felicità. Mi metto la sciarpa, i guanti, mi calo un cappello di lana sulla testa, esco e chiudo la porta.
Scendo le scale più in fretta che posso, per scaldarmi, ma ho paura di scivolare. Apro la porta dell’androne ed esco nel cortile coperto di neve. Rimango immobile. Una carezza di vento alza i fiori del pioppo dall’aiuola e li fa danzare. Alcuni mi arrivano in faccia, mi fanno il solletico e un po’ di allergia.
La primavera è inclemente e impietosa. La luce mi inonda senza toccarmi, senza scaldarmi. Sembra quasi che l’universo voglia gioire con me della mia vittoria, ma io non capisco perché. Una festa a sorpresa per una persona depressa.
«NU-ME-RO-U-NO!».
Gigi è di fronte a me. Alto, con la luce del sole che lo oscura e i fiori del pioppo nei capelli e nella barba. È una creatura mitologica, un titano della neve solare.
«NU-ME-RO-U-NO!».
Sta contando per me? I giorni della mia nuova vita, o forse tutti quelli che restano.
Mi prende per le spalle:
«NU-ME-RO-U-NO!».
La sua saliva mi arriva sugli occhi, sui pochi punti di viso rimasti scoperti.
«NU-ME-RO-U-NO!».
Mi solleva da terra stringendomi le spalle, non sono niente nelle sue enormi mani folli. E io rimango nessuno nelle mani di Polifemo. Esultiamo nella luce e nel candore del pioppo. Sono un’ostensione sull’altare, un’ostia, una sindone.
«N-n…» questa volta mi sussurra, a pochi centimetri dal mio viso. «Numerouno». Mi rimette al suolo. Si volta e torna a nuotare nel mare dei fiori del pioppo e nella luce.
Un po’ in ritardo, gli sorrido.
Immagine di copertina di Didgeman da pixabay
*****
Lorenzo Del Corso. Sono nato a Pisa, dove vivo, nel 1994. Da piccolo pensavo di amare l’economia, ma qualcosa dev’essere andato storto, perché dal 2020 sono professore di Italiano. Ho pubblicato i miei racconti su Rivista Blam, Il mondo o niente, Malgrado le mosche, Birò, Clean, Madre, Lettera Zero Nuova Serie. Dal 2019 sono membro attivo (nonché fondatore) del collettivo di scrittura Lo Scisma.
L'articolo Guarigione sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo Scorpioni e scolopendre sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>Sono uscita di casa al primo sole del mattino e mi sono trovata di fronte un tipo mai visto da queste parti. Camminava con l’andatura del montanaro, passi decisi e falcata lunga, sembrava giovane ma aveva capelli bianchi raccolti in un codino e barba candida. Portava uno zaino di tela militare e scarponi da montagna di quelli di cuoio grosso che usavano una volta. Legato intorno alla vita gli pendeva un poncho rammendato con fili colorati. Mi ha fatto un cenno di saluto ed è passato oltre. Mentre cercavo funghi l’ho incontrato di nuovo. Non erano passati che pochi minuti quando l’ho scorto in alto, sul sentiero che porta alla cima, come faceva a essere già lassù?
Il grande letto matrimoniale, l’unico che c’era e che c’è, conteneva tutta la famiglia, me in mezzo fra mia madre e mio padre. Questa baita sperduta era la sua casa prediletta. L’aveva costruita con le sue mani e il suo tempo.
Mia madre non l’amava, spesso ci andavamo io e lui. Gli dormivo appiccicata alla schiena. Mi portava a funghi, mi insegnava a distinguerli. Mi abituava a salire lungo i sentieri. Anche se ero stanca andavo avanti per non deluderlo. Così ho imparato a conoscere la montagna e ad arrampicare.
Mio padre era tutto per me.
Saliamo un’ora senza più parlare, la salita è dura e penso quanto peserà portare fin qua armi e munizioni. Mi sento inquieto. Quello che il comandante dice non ha senso, che resistenza si organizza a duemila metri?
Siamo ormai quasi al passo e del ricovero non scorgo traccia.
Compagno comandante dove sarebbe questo ricovero?
Compagno fermati devo leggerti gli ordini del comando di Brigata.
Siamo a un passo dal burrone, comincio a capire dove vuole arrivare.
In nome del comando della Brigata Garibaldi Alta Carnia sei condannato alla fucilazione come spia dei fascisti.
Mi punta la pistola alla tempia, io estraggo la Beretta e sparo. Non sparo niente, qualcuno ha tolto il caricatore.
Lui sogghigna. Credi che sia così scemo da lasciarti un’arma carica?
Il primo scorpione l’ho visto sulla soglia, dove lascio le scarpe per indossare le pantofole. Era grosso, marrone scuro. Mai visti prima scorpioni in questa casa. È una casa pulita e per niente umida, anche se vecchiotta.
Trovavo spesso grossi ragni nel bagno al piano terra, urlavo, mio padre arrivava di corsa, li copriva delicatamente con un bicchiere, poi ci faceva scivolare sotto un foglio, capovolgeva il tutto e andava a liberarli in giardino. Mia madre era più spiccia, li schiacciava con una ciabatta. In tutta onestà preferivo il metodo di mia madre. Oggi mio padre e mia madre non ci sono più. Ho ereditato la casa. Ci venivo con mio marito e Carolina. Ora Carolina sta in America e mio marito è morto. Ci vivo da sola e i ragni non mi fanno più paura. Va peggio con gli esseri umani, che preferisco evitare.
Però questo scorpione mi inquieta. È un essere delle profondità, primo aracnide uscito dall’acqua e sopravvissuto a tutte le ere.
Ho pochi secondi prima che mi ammazzi.
Lo sai benissimo che non sono una spia. Tu mi ammazzi per motivi personali. Mi fai schifo, compagno. Mi ammazzi perché ti ho rubato la donna.
Il comandante abbassa la pistola e mi tira un ceffone.
Non sono stato io a cercarla, non l’avrei mai fatto. È venuta lei da me, bruciava di desiderio.
A onore del comandante devo dire che da questo momento la battaglia si è svolta ad armi pari, a cazzotti.
Lui mi ha colpito alla testa, ho vacillato, ma sono agile e ho fatto in tempo a scartare e a rispondergli con uguale forza, siamo finiti a terra. Ci siamo rotolati avvinghiati con il precipizio a due passi.
Se muoio io muori anche tu, ho mugolato.
Che sbaglio, così gli ho dato forza, mi ha tempestato di pugni; io ho fatto altrettanto ma lui è robusto e ha mirato alla testa.
È riuscito a scaraventarmi nel burrone. Mi sono schiantato sulle rocce.
Oggi un’altra orrenda sorpresa, spostando la legna da ardere è uscita fuori una scolopendra: una vera scolopendra italiana, non una scutigera, che a quelle ci sono abituata. Da bambina le temevo ancora più dei ragni, mi facevano schifo con quelle quindici paia di zampette velocissime. Le immaginavo in agguato negli anfratti, pronte a uscire con il buio. Prima di coricarmi scostavo il letto dalle pareti, altrimenti mi era impossibile prendere sonno. Ero ossessionata dall’idea che mi cadessero addosso. Di notte mi bastava accendere la luce per vederle correre sui muri. Terrificante. La casa di città, dove sono cresciuta, ne era infestata. Avevano un bel dirmi che erano innocue, mia madre dava loro battaglia a suon di ciabatte, ma spesso le sfuggivano e anche lei rabbrividiva. A me perfino la vista dei loro resti spiaccicati risultava raccapricciante.
Ma quella che è uscita dalla legna, un artropode munito di corazza e ventitré zampette per lato – non che le abbia contate, ho trovato l’informazione su internet – è veramente velenosa, molto più dello scorpione e di qualsiasi altro ragno. La mia era lunga almeno dieci centimetri ed è fuggita orrendamente rapida sotto i mobili della cucina. Non sono riuscita a schiacciarla e adesso che faccio?
Non ha avuto nemmeno il problema di far sparire il cadavere. Ci hanno pensato gli avvoltoi e i gracchi.
Così sono vivo. Mi infilo negli esseri, compaio e scompaio. Osservo e mi lancio, la preda che dilanio è vita che si compie, e ricomincia. Procedo con passo da cacciatore di montagna e non lascio impronte, solo un vago senso di perdita e d’infinito.
Mi sono svegliata per andare in bagno, volevo accendere la luce per controllare se qualche aracnide si era infilato nelle ciabatte, ma ancor prima di premere l’interruttore l’ho visto. Per terra, di un azzurro fluorescente che sfiorava il turchese, c’era uno scorpione con la coda inarcata e le chele alzate. Era spaventosamente bello. Non ho avuto coraggio di ucciderlo, sono corsa a prendere scopa e pattumiera e l’ho buttato in giardino, più lontano possibile da casa.
Lui ha taciuto la verità, le ha raccontato che ero stato fucilato ad Attimis insieme a molti altri, donne e bambini, i corpi bruciati nelle case del paese, irriconoscibili. La mia tomba è un monumento senza ossa. Lei mi ha pianto ma infine lo ha sposato. Il comandante ha preso il mio posto, ma ha dovuto crescere una vita che veniva da me, ha dovuto amarla come fosse sua per scoprire che non era né sua né mia.
Questa sera prima di andare a dormire ho spostato il letto e sbattuto coperte e lenzuola, non ho trovato nessuno scorpione e nessuna scolopendra, così ho preso sonno.
Non saprei che ora era quando mi sono svegliata e ho sentito qualcuno russare accanto a me. Il cuore si è fermato, il sangue ha rallentato, mi sono detta: è finita, questo cuore non riparte.
Non so per quanto tempo non ho avuto pensieri. I pensieri fanno parte della vita non della morte. Ho atteso. Con un battito aggiuntivo il cuore ha spinto avanti il sangue. La vita ha ripreso a scorrere nelle arterie.
Ho pensato a mio padre. Questo era il suo letto. Ho sentito la protezione del suo corpo, mi è venuta voglia di rannicchiarmi vicino a lui, come facevo da piccola. Ne ho ascoltato il respiro e il russare sereno e regolare. Dormivo accompagnata da quel ritmo, anziché disturbarmi mi tranquillizzava. Questo è uguale.
Potrebbe essere mio padre. Voglio che sia lui, tornato dall’altra vita. Oppure sono io che sono morta e l’ho raggiunto?
Mi avvicino piano alla sua schiena. Sono certa che è lui. Come è bello sentirlo ancora russare, mi rassicura. Lo tocco: è un corpo vivo. Sento le costole andare su e giù a ogni respiro. Vorrei abbracciarlo.
Mi colpisce un intenso odore di terra e di foglie morte. E poi un afrore pungente di selvatico. Questo non è mio padre, è un animale. Gli aderisco ancora di più, respiro con lui.
Che pena i sentimenti degli uomini. Ha continuato a venire quassù con la donna e la bambina. Pensava di espiare. Non c’è niente da espiare. Tutto è già morto e rinato, tutto, nell’aria e nella terra.
Copertina originale di Gabriele Merlino
*****
Barbara Vuano è nata a Belluno. Vive fra Udine e Grado. Ha pubblicato racconti e biografie in libri collettanei per Kappa Vu, Udine. Ha pubblicato la raccolta poetica Il tempo ti guarda scorrere, (Samuele Editore 2017) e il saggio antropologico Nascere nella cenere, (Forum Editrice Universitaria 2022).
L'articolo Scorpioni e scolopendre sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>L'articolo Vero amore sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>È così leggera, la mia amata, come una bambolina di pezza o una figurina di carta. Adoro vederla volteggiare così armoniosa. Mi coglie l’ansia, però. E se una folata di vento improvvisa la sollevasse e la portasse via? Potrei non riuscire a trattenerla. Immagino la finestra che si spalanca e una corrente improvvisa la travolge. Le corro accanto, tento di afferrarla ma niente, mi sguscia tra le mani e vola via. Non posso che seguirla con lo sguardo. Sarei mai capace di ritrovarla?
Quanti pensieri mi dà, la mia adorata Emma! Ogni tanto, nel suo continuo girovagare per casa, si muove troppo velocemente. Avverto il fruscio del suo vestito che si fa più intenso e subito mi danno, prendo a seguire i suoi passetti corti e rapidi e le dico non correre, è pericoloso, ti prego, rallenta, ma lei non mi ascolta e continua il suo moto incauto. Ho paura che un giorno, fragile com’è, cada e vada in pezzi e io non riuscirò a ricomporla.
E poi tremo per la sua pelle, che è soffice e rosea, ma così delicata che anche la carezza più leggera la segna. Io le preparo bagni con miele, panna montata e petali di rosa e poi l’asciugo sfiorandola appena con panni di ciniglia ma anche il tocco più delicato può scalfire la sua superficie morbida. Non c’è cura premurosa che riesca a proteggerla.
E quel torrente di parole, il suo vociare continuo, certo non le reca beneficio. Perché la mia amata Emma parla molto, parla troppo, e il tono non dovrebbe essere così alto. Temo che insieme alla voce le escano dalla bocca brandelli di anima, insieme a sbuffi di fiato, e che alla fine possa sputar via anche ciò che è dentro di lei, e poi ciò che è fuori. Un giorno mi stupirò del suo improvviso silenzio, mi girerò a guardarla e troverò solo un mucchietto di vestiti.
Per quanto mi affanni, il mio cruccio è continuo. È per questo che le ho costruito la grata. È di acciaio scintillante e tutti i giorni infilo fiori freschi tra le sue maglie. Ho rivestito di morbida pelliccia la catena che le cinge la caviglia e il foulard che le copre la bocca è di seta profumata. Ecco, ora finalmente è ferma e silenziosa e io sono sereno: non può succederle nulla di male. Siamo finalmente felici.
Immagine di copertina da pixabay
L'articolo Vero amore sembra essere il primo su Spazinclusi.
]]>